I duemila anni di storia degli ebrei in Italia

Harry D. Wall, The New York Times, Stati Uniti

L’epigrafe incisa in latino sull’antica tavola di pietra era breve e affettuosa: “Claudia Aster, prigioniera da Gerusalemme”. Fu portata a Roma in catene dopo la repressione di una rivolta a Gerusalemme nel 70 dC. Sembra fosse la concubina di un notabile romano che volle darle una sepoltura dignitosa e che aggiunse un elemento insolito alla pietra funeraria: “Vi prego di prendervene cura e di rispettare la legge che vieta di rimuovere questa iscrizione”. Questo omaggio è una delle tante rivelazioni del nuovo Museo dell’ebraismo italiano e della shoah (Meis), a Ferrara, e il cuore della prima grande mostra organizzata dal museo nel 2017, intitolata: Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni. La mostra esamina il lungo e complesso legame tra Roma e Gerusalemme, tra cristianesimo ed ebraismo.

Gli ebrei vivono in Italia da più di duemila anni e sono una delle più antiche comunità della diaspora occidentale. Anche prima della distruzione del tempio di Gerusalemme, a quell’epoca il cuore dell’ebraismo, e il trasferimento e la messa in schiavitù dei prigionieri ebrei a Roma, c’erano ebrei che vivevano nell’Italia meridionale, dove erano arrivati come mercanti o profughi.

La storia della vita degli ebrei in Italia potrebbe sembrare una lunga epopea di sofferenza e traumi: schiavitù all’epoca dei romani, nel medioevo l’inquisizione e la persecuzione da parte della chiesa, segregazione forzata in quartieri angusti. Nel 1516 a Venezia fu creato il primo di molti ghetti. Nel novecento ci furono il fascismo, le leggi razziali antisemitiche e l’olocausto.

Quasi 7.700 ebrei furono uccisi su una popolazione totale di 44.500 persone. Esiste però un’altra faccia della storia ebraica italiana, fatta di accettazione, integrazione e perfino apprezzamento nel lungo arco di tempo di civilizzazione nella penisola. “Il dialogo storico con la cultura italiana ha arricchito l’ebraismo italiano e a sua volta l’ebraismo ha portato alla cultura italiana importanti contributi e valori”, spiega Simonetta Della Seta, che dal 2016 è direttrice del museo.

Dialogo e coesistenza Il museo è organizzato cronologicamente secondo le età della storia italiana, e la collezione permanente si arricchisce nel tempo di nuovi elementi. Ad aprile di quest’anno è stata inaugurata un’altra mostra dedicata agli ebrei e al rinascimento. All’olocausto il museo dedicherà un’esposizione permanente, che sarà inaugurata a settembre.

Ferrara, una città dell’Italia nordorientale a metà strada tra Bologna e Venezia, che nel medioevo fu centro della vita ebraica, può sembrare una scelta strana come sede del museo. La città è stata un importante centro del rinascimento – dominata da un grande castello, centro nevralgico della potente famiglia degli Este, e circondata da mura e fortificazioni medievali – ma non rientra nelle destinazioni italiane più frequentate per quanto riguarda la cultura ebraica o il turismo più in generale. Il Meis, però, potrebbe cambiare le cose.

Il museo è costruito in parte sui resti di una vecchia prigione di via Piangipane, un complesso di mattoni di due piani a poca distanza da quello che era il ghetto ebraico. Durante la seconda guerra mondiale nell’edificio furono rinchiusi i partigiani e gli ebrei. L’edificio ospitò le carceri cittadine fino al 1992. Perché scegliere una vecchia prigione per ospitare il museo?

“La sfida è stata prendere un luogo buio in cui le persone venivano rinchiuse per trasformarlo in uno spazio aperto alle idee, alla cultura e al dialogo. Questa è la nostra missione”, spiega Della Seta.

La collezione del museo, con più di duecento pezzi e installazioni multimediali, sostiene questa narrazione alternativa fatta di coesistenza e di vari contributi. Un mosaico del quinto secolo, che ritrae due matrone, una con l’antico testamento e l’altra con il nuovo, mostra un’unica comunione di fede, un capitolo importante della relazione tra ebraismo e cristianesimo, che in altri momenti storici è stata difficile. Ci sono preziosi documenti e strumenti che descrivono il contributo ebraico nella medicina, nella scienza e nell’astronomia. In mostra ci sono anche i frammenti di antichi testi e manoscritti che sottolineano l’importanza della scrittura nella storia ebraica d’Italia. “Per secoli gli ebrei sono stati scrittori e scrivani. Poi sono diventati gli stampatori degli italiani”, spiega Della Seta, aggiungendo che tra i primi editori d’Italia, durante il medioevo, ci sono state le stamperie ebraiche di Venezia e Soncino.

Ferrara rappresenta un’epoca d’oro per l’ebraismo italiano. Nel cinquecento i duchi della città, gli Este, decisero di accogliere gli esiliati sefarditi spagnoli e altri ebrei, in un periodo in cui il potere politico della chiesa cattolica era dominante e gli ebrei venivano confinati nei ghetti a Roma e a Venezia.

“Il duca capì che gli ebrei, in gran parte mercanti e commercianti, potevano contribuire alle ambizioni degli Este per lo sviluppo dell’industria tessile di Ferrara”, spiega Andrea Pesaro, 82 anni, ingegnere in pensione e presidente della piccola comunità ebraica di Ferrara, che conta circa ottanta persone.

Al suo apice, nel medioevo, la comunità ebraica di Ferrara era composta da duemila persone, racconta Pesaro. C’erano studiosi, medici e stampatori. Ma dopo la fine del regno degli Este la chiesa cattolica aumentò la sua influenza, le persecuzioni antisemite s’intensificarono e gli ebrei furono costretti a vivere in un ghetto dal 1627 fino all’emancipazione del 1859.

“Gli ebrei vivono a Ferrara da più di mille anni”, racconta Pesaro di fronte all’edificio della sinagoga, in via Mazzini 95, sede originale dal 1603. Oggi è in fase di restauro dopo che nel 2012 un terremoto l’ha danneggiata gravemente. L’edificio è semplice, di mattoni rossi, quasi indistinguibile. L’unica differenza con gli altri edifici sono le due targhe, vicino all’ingresso ad arco, che commemorano le vittime ferraresi dell’olocausto. All’interno gli ambienti più importanti sono la Scola tedesca (ashkenazita) e la Scola italiana. I soffitti a volta della Scola tedesca, con i candelabri e i vivaci motivi ebraici sulle pareti, contrastano con la semplicità dell’Arca della Torah e dei banchi di legno scuro.

Un’istituzione pubblica Una passeggiata nel ghetto con Pesaro permette una commovente osservazione di un tempo lontano. Via Giuseppe Mazzini, una volta la principale strada del ghetto, oggi è piena di caffè e negozi, e di gente in bici che va in direzione della piazza centrale, dominata dalla cattedrale e dal castello estense.

Due strette strade di ciottoli, adiacenti a via Mazzini, formano il cuore più riconoscibile del ghetto. Camminando in una di queste, via Vignatagliata, Pesaro mi indica gli edifici dove sorgevano il forno che produceva pane azzimo o la scuola ebraica, i cui alunni aumentarono dopo che le leggi razziali del 1938 impedirono agli ebrei di frequentare le scuole pubbliche. A sinistra c’è la piccola piazzetta intitolata a Isacco Lampronti, un noto rabbino, studioso e medico del settecento. La sera, quando le luci fioche danno un’aria malinconica alle strade, è facile immaginare quel periodo così buio per gli ebrei di Ferrara.

Il cimitero ebraico, fuori dal ghetto, è impressionante, se non altro per le ampie porzioni d’erba senza lapidi. Quando chiedo a Pesaro dove siano finite tutte le pietre tombali, mi spiega che marmo e pietra furono requisiti nel Settecento, all’epoca dell’Inquisizione, per costruire i due pilastri che incorniciano l’ingresso alla sede del comune, di fronte alla cattedrale.

Il cimitero ebraico attira molti visitatori, italiani e stranieri, che vengono soprattutto per rendere omaggio allo scrittore ferrarese Giorgio Bassani, noto in particolare per il romanzo Il giardino dei Finzi Contini, che racconta la storia di una ricca famiglia ebrea che deve fare i conti con le leggi razziali prima di essere travolta dall’olocausto. La tomba dello scrittore è isolata rispetto alle altre e ha una lapide di bronzo che poggia su una lastra di pietra. Secondo Pesaro e altri componenti della comunità ebraica ferrarese, il libro è offensivo nei confronti della famiglia Pesaro, su cui il romanzo sembra essere basato, perché descrive la sua famiglia e gli ebrei di Ferrara come una comunità ignara del fascismo e dell’imminenza del proprio tragico destino. Il museo è un’istituzione pubblica, finanziata dallo stato, istituita con una legge nel 2003. Originariamente era stato concepito come un museo dell’olocausto, ma in seguito è stato deciso di includere anche la storia e l’eredità culturale dell’ebraismo italiano. È stato inaugurato il 13 dicembre 2017 in due degli ex edifici carcerari. Quattro nuovi edifici, costruiti in modo da sembrare cinque, come i libri della Torah, saranno terminati entro il 2021. A quel punto il museo avrà una superficie di novemila metri quadri, per un costo stimato di cinquanta milioni di euro.

Finalità più vaste All’ingresso si può vedere un filmato di 24 minuti che racconta la storia degli ebrei italiani attraverso alcune vicende individuali: uno schiavo ebreo, deportato da Gerusalemme a Roma nel primo secolo, uno studioso medievale che gode di uno status privilegiato, e una ragazza costretta a lasciare la scuola nel 1938 a causa delle leggi razziali. Dopo questo riassunto di storia si può raggiungere il secondo edificio facendo una breve passeggiata attraverso un giardino didattico che spiega le regole alimentari ebraiche.

La mostra Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni, si concentrava soprattutto su Roma e sulle regioni meridionali (Sicilia, Puglia, Campania e Calabria) dove nel corso del primo millennio si stabilì la maggior parte degli ebrei. Dopo essere passati accanto a una replica dell’arco di Tito, che commemora la vittoria di Roma su Gerusalemme e ritrae alcuni soldati che portano con sé la menorah (la lampada a olio a sette bracci), i visitatori possono osservare alcuni manufatti originali o riproduzioni: antiche stampe, amuleti, anelli, sigilli e lampade a olio con simboli ebraici, manoscritti medievali. Alcuni di questi concessi in prestito permanente da altri musei italiani.

Ci sono stanze che simulano le catacombe ebraiche di Roma, con pareti decorate da affreschi che ritraggono la menorah e altri simboli religiosi e caratteri scritti in ebraico. “Le catacombe ebraiche di Roma sono state una miniera per le nostre conoscenze sugli ebrei dell’età imperiale, circa quarantamila persone”, spiega Della Seta.

La mostra è organizzata in maniera tematica e cronologica: gli ebrei in Italia, il legame tra ebrei e cristiani, il contributo degli studiosi e degli scienziati ebrei. Gli schermi per vedere i video sono sistemati in modo strategico con interventi di storici, archeologi e rabbini che spiegano le loro scelte sui pezzi da esporre e gli eventi storici. I due piani del museo fanno emergere la tenacia e la portata della storia ebraica nel corso dei millenni. La penisola italiana è stata abitata da romani, goti, bizantini, longobardi e musulmani. L’unica presenza ininterrotta è stata quella degli ebrei, rimasti fedeli alla loro identità e alla loro civiltà nonostante le tante sfide alla loro sopravvivenza. Secondo l’Unione delle comunità ebraiche italiane, oggi in Italia ci sono circa trentamila ebrei, la maggioranza dei quali a Roma e a Milano.

La missione del museo è alimentare il dialogo, la comprensione e la coesistenza, spiega Dario Disegni, presidente del Meis: “Il Meis racconta la storia di una minoranza che si è integrata nella società italiana ed è stata in grado di mantenere la sua identità culturale e religiosa. È davvero un modello, un punto di riferimento per la società italiana ed europea di oggi”.

È un messaggio, in un periodo in cui l’Italia e altri paesi europei sono messi alla prova da una nuova ondata d’immigrazione e di crescente intolleranza, che potrebbe conferire al Meis un’eco e finalità più vaste di quelle che normalmente hanno i musei storici.

ff

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