Amos Gitai, l’incontro al Meis: “Doña Gracia, paladina di libertà”

Sciarpa rossa e completo nero, come le New Balance che porta ai piedi, lui che è abituato a spostarsi tra Tel Aviv e Parigi. Ed è proprio a Saint-Germain-des-Prés, al Cafè de Flore, che Isabelle Huppert qualche anno fa gli ha raccontato la storia di una donna ebrea straordinaria, che riuscì ad averla vinta sull’Inquisizione, a fronteggiare il fuoco amico degli intrighi familiari e a imporsi come imprenditrice di successo, filantropa sociale e promotrice culturale, senza mai abdicare alle proprie radici, profondamente piantate nell’ebraismo.

E quel racconto, ha spiegato ieri Amos Gitai a Ferrara, ospite del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS, ha presto assunto i contorni di un progetto di biopic, da girare in costume e con la stessa Huppert nel ruolo di protagonista. Avrà, quindi, il suo volto diafano e altero, la sua fisicità nervosa e inquieta, Doña Gracia Nasi, business woman precorritrice dei tempi, vissuta tra la natia Lisbona e Anversa, Venezia, Ferrara, Tiberiade e Istanbul, e talmente carismatica da rappresentare un punto di riferimento incrollabile per molti ebrei suoi contemporanei, ai quali non fece mai mancare il proprio aiuto.

A tratteggiarne il profilo sono intervenuti, insieme al regista israeliano, Alain Elkann, amico di lunga data di Gitai e membro del Comitato Scientifico del Museo, e Simonetta Della Seta, Direttore del MEIS, che ha sottolineato come “l’evento, promosso in collaborazione con il Comune di Ferrara e con Arci Ferrara, sia anche un modo per festeggiare i 70 anni dello Stato di Israele. Ed è significativo che Gitai presenti il suo lavoro nella città dove Doña Gracia poté tornare a vivere liberamente la propria identità, dopo che la Spagna ebbe imposto anche al Portogallo l’Inquisizione e l’editto di espulsione degli ebrei”.

Come ha evidenziato Elkann, una scelta singolare, per un regista che di solito tratta argomenti contemporanei: “Del resto Amos è uno strano tipo. Sua madre appartiene a una delle famiglie che hanno contribuito alla fondazione di Israele, mentre suo padre è stato un esponente del movimento del Bauhaus e poi si è trasferito in Israele. Amos ha studiato architettura, è diventato un soldato israeliano, è caduto con l’elicottero, è stato ferito. Viene spesso in Europa, conosce le comunità ebraiche americane e sa bene cosa sia la diaspora. A volte fa film francesi, americani, israeliani, a volte film politici molto belli e importanti, come quello su Yitzhak Rabin, o come quello che ha appena realizzato, con tanti attori dentro un tram a Gerusalemme”.

E ora, invece, Doña Gracia Nasi: “Perché mi interessa – chiarisce Gitai – il passato non per un progetto nostalgico, ma per ciò che può dirci del presente e del futuro. Il film su Rabin, ad esempio, l’ho girato perché lui aveva comunque indicato una direzione, anche se il suo assassinio ha cambiato il mio paese e spezzato un sogno”.

Ed ecco ciò che Doña Gracia può insegnare, secondo Gitai: “Come una donna di 500 anni fa potesse essere assertiva, sicura, coraggiosa, non schiava del machismo o del potere. La sua famiglia era stata convertita forzatamente, ma lei riuscì a far scappare molte persone ad Anversa. Qui, con suo zio, diventa importatrice di sale e pepe dalle Indie e si arricchisce, poi di nuovo viene perseguitata. Per molti versi, questi marranos e conversos soffrono ancor più degli ebrei: la chiesa li tortura, per dimostrare che non sono cattolici convinti. Con uno studio metodico, abbiamo ritrovato documenti su queste violenze e su come venivano eseguite. E questo mi ricorda ciò che sta facendo mia moglie Rivka, per scoprire che cosa ne è stato di sua madre ad Auschwitz. Ma in quel caso è più facile, perché i tedeschi hanno registrato tutto”. L’antisemitismo, insomma, come comune denominatore di vicende storiche apparentemente lontane e diverse: “Sono convinto che in Europa abbia soprattutto origini religiose. E fatti come l’istituzione del ghetto di Venezia da parte del Papa, nel 1516, rappresentano ancora il retroterra dell’antisemitismo europeo attuale”.

Una storia emblematica, quella di Gracia, anche per l’inquietante effetto-specchio che innesca. L’ultimo capitolo della sua esistenza è a Istanbul, dove incontra Solimano il Magnifico e ottiene di poter creare un insediamento ebraico autosufficiente sul sito dell’antica Tiberiade, primo passo verso la costruzione della terra di Israele. “Dunque – riprende Gitai –, 500 anni fa il mondo islamico era illuminato, mentre l’Europa era retrograda. È ironico, del resto sono un collezionista di contraddizioni…”.

E una delle contraddizioni più laceranti, il regista l’ha rivissuta lungo il percorso espositivo del MEIS sui primi mille anni di presenza ebraica in Italia: “Sotto la ricostruzione dell’arco di Tito, Alain mi hai detto: “Questa piacerebbe molto a Benjamin Netanyahu”. Invece, la sofferenza passata del popolo ebraico non può legittimare la creazione di nuova sofferenza ad altre persone. Così si rischia di banalizzare tutto. Se per giustificare delle operazioni militari ricicli la Shoah, male assoluto di proporzioni gigantesche per l’umanità, banalizzi la Shoah. Credo che la direzione presa oggi dalla leadership di Israele sia catastrofica e faccia del male alla stessa narrativa ebraica. In un certo senso, il progetto israeliano, che ai miei occhi è legittimo, andrebbe ripensato, perché ci siamo allontanati parecchio dall’originale”.

Criticare il potere e la religione, se ci sembrano immorali. Un diritto che Gitai riconduce alla Bibbia: “Trovo che il suo grande retaggio sia che è un testo critico, privo di censure. Tra le figure più incensate c’è il re Davide, ma dalle stesse pagine apprendiamo anche che quell’uomo desiderava Betsabea e che, per averla, mandò suo marito Uria in guerra, dove fu ucciso. È una lezione morale molto importante, che fa parte del Dna degli ebrei. E se gli ebrei non si sono estinti, penso sia grazie a questa attitudine, che io cerco di esprimere con i miei film”.

Ecco, allora, il cinema come strumento di riflessione critica sul presente, anche se la storia è ambientata molti secoli fa: “La sfida più grande è quella di capire come trattare il materiale grezzo da cui parto. Le arti si stanno allontanando troppo dai contenuti, mi sembra che siamo in una fase confusa. Vedo spesso installazioni incomprensibili, delle quali non si capisce il messaggio. Dovrebbero, invece, reintegrare il contesto nel gesto dell’artista, comunicare l’impegno civile che lo ha portato a quell’esito. Picasso non volle riportare Guernica in Spagna fino alla morte di Franco e questo ha fatto del suo dipinto un gesto civile multiplo. E anche questo Museo, per il ruolo così impegnativo che riveste, non dovrà mai trascurare il ragionamento e la riflessione civile”.

Daniela Modonesi

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